A volte capita che un avvenimento, un incontro, possa cambiarti letteralmente la vita. È quello che è successo a me non ancora maggiorenne su un traghetto della tratta Napoli – Palermo. Io un ragazzino affetto da atrofia muscolare spinale, vengo avvicinato da due signori anch’essi affetti da una malattia genetica, che mi iniziano a parlare di uno sport che era possibile praticare su una carrozzina elettronica e per di più che non richiedeva una grande forza fisica. “Si chiama wheelchair hockey e tu potresti diventare un ottimo atleta” mi dissero. Erano due fratelli, di cui uno presidente della sezione Uildm di Palermo, da anni atleti di questa particolare disciplina sportiva. La parola “atleta” fino a quel momento non esisteva nel mio vocabolario, almeno per un diversamente abile e lo scetticismo verso quel mondo a me prospettato durante quella traversata era parecchio. Alla fine, dopo pressioni e forzature da parte dei miei genitori e diversi inviti da Pietro e Giovanni (i due fratelli del traghetto), mi reco a Palermo nella palestra dove si tenevano gli allenamenti e comincio a prendere contatto con la pallina, la mazza, lo stick, il campo, i compagni…

È amore a prima vista! Inizialmente provo a giocare con la classica mazza da hockey che generalmente nel nostro sport usano gli attaccanti per fare gol e che possiedono una discreta forza fisica, cosa che a me veniva a mancare dopo qualche minuto, così opto per lo stick, uno strumento in teflon a forma di T che si aggancia alla parte anteriore della carrozzina e consente di portare la pallina o respingere i tiri nel caso del portiere.

Ebbene, la mia carriera comincia tra i pali ma ben presto vengo spostato in difesa da ultimo baluardo prima dell’estremo difensore. L’emozione di stare in mezzo al campo, di essere circondato da compagni e avversari, di sentire lungo il corpo quell’adrenalina che solo lo sport ti può dare non è quantificabile, la tua disabilità, la carrozzina, il tuo essere diverso, non esiste più, ti senti parte di quel “mondo” a tutti gli effetti, uguale a tutti gli altri, e senti che quella è l’occasione giusta per far vedere agli altri quanto vali. Perché non importa se hai un’atrofia, una distrofia, una tetraparesi o una lesione midollare, nel wheelchair hockey tutti possono essere protagonisti e fondamentali allo stesso tempo.

Non c’è distinzione di sesso o di età, giocano maschi e femmine dai 5 anni ai 70, non ci sono limiti, basta la voglia di mettersi in gioco nel vero senso della parola. Si gioca 5 contro 5 su un campo di 26 x 16 metri circondato da sponde che ne delineano il perimetro, generalmente due arbitri assicurano il corretto svolgimento del match. In Italia le carrozzine possono raggiungere il limite massimo di velocità di 12 km/h (che non è poco), mentre a tutti i giocatori viene assegnato un punteggio, in base alla forza fisica di ciascuno, da una commissione medica, per cercare di livellare le forze in campo tra le squadre.

Il mio primo campionato risale alla stagione sportiva 2005/06, all’inizio qualche scampolo di partita, poi via via sempre più spazio grazie alle mie doti innate per quello sport che in poco tempo mi aveva folgorato e non potevo più farne a meno. Da Palermo fino a San Benedetto del Tronto, sede delle finali del torneo nei primi anni. Lì ogni squadra che si classificava al primo posto del proprio girone di appartenenza, si andava a giocare il sogno di vincere almeno una volta il tricolore.

Le squadre, circa 30, oggi suddivise in due categorie, Serie A1 e A2, disputano un campionato nazionale da Nord a Sud nel periodo che va da ottobre ad aprile di ogni anno, a metà maggio vanno in scena i play off del torneo dove si assegna lo scudetto e la promozione in A1 per le finaliste della serie cadetta.

Con la maglia giallo rossa, quella dei Red Cobra Palermo, ho giocato cinque stagioni che sono state per me un’escalation di conquiste, con il mio capitano Giovanni ben presto diventiamo la coppia “mazza-stick” più forte del panorama nazionale, ci sentivamo a pelle senza bisogno di guardarci, grazie a quell’intesa e ai risultati della squadra, nel 2009 arriva per me la prima chiamata in azzurro e come ogni prima volta è impossibile dimenticarla.

Qualche convocazione iniziale ma la vera affermazione in nazionale avviene qualche anno più tardi, nel 2011, l’Italia dell’hockey su carrozzina sbanca Berna vincendo il suo primo titolo assoluto, un 4 Nazioni con Svizzera, Belgio e soprattutto Germania, campione del mondo in carica. In quel team c’era uno stick venuto da lontano, da un paesino della provincia di Agrigento, che mai avrebbe sognato un giorno di far parte di tutto questo.

hockey disabili

Nel giugno 2012, l’altra incredibile emozione, il mio primo torneo ufficiale con la maglia azzurra, ovvero l’Europeo in Finlandia. Alla fine conquistiamo un 5° posto che ci lascia tanto amaro in bocca ma che non cancella la grande emozione di un tale evento. Ma prima di vivere queste stagioni magiche, nel 2010 decido di lasciare i Red Cobra per fondare un team nel mio paese, che potesse rappresentare il mio territorio. Per diversi anni mi toccava viaggiare, due volte a settimana per disputare gli allenamenti, da Santa Margherita di Belice (il mio comune di residenza) a Palermo, 70 km andata e 70 al ritorno. Tanti, è vero, ma quando hai la passione e l’amore per una determinata cosa la fai con piacere e la fatica la senti meno. Alla fine però ho voluto dare la possibilità ad altre persone della mia zona di poter conoscere e cimentarsi in questa disciplina sportiva, sperando che un giorno potessero vivere le mie stesse emozioni.

hockey e disabili

Nascono i Leoni Sicani, un gruppo di ragazzi provenienti dai diversi comuni della Valle del Belice, che in pochissimo tempo riescono a scalare le classifiche nazionali e già al secondo anno di attività ottengono la promozione in Serie A1.

Nel 2014 quella squadretta nata così per caso, è sul tetto d’Italia, con un secondo posto nazionale che sa tanto di impresa straordinaria. In Sicilia, dalle mie parti, ci lamentiamo spesso, mancano le strutture, i servizi, i soldi, tutto, e spesso è vero, noi però non ci siamo arresi, ci siamo sbracciati fin dal primo giorno, per reperire fondi, per comprare le carrozzine che servivano per giocare (una specifica per l’hockey si aggira sui 15.000 €), per poter affrontare le trasferte e quindi i costi delle navi perché gli aerei non puoi prenderli, dei pulmini per i transfer, degli hotel attrezzati (quando li trovi) necessari per soggiornare durante il viaggio, abbiamo dovuto pensare a tutto e continuiamo a pensare a tutto.

Basti pensare che ad oggi siamo costretti ad allenarci in una palestra che non ci permette di montare il campo, perchè troppo piccola, ed è priva di riscaldamenti, fondamentali per chi principalmente è affetto da una malattia neuromuscolare e con il freddo fatica a muovere persino il joystick della carrozzina. Essere il fondatore e il capitano di questa grande squadra è per me un onore immenso e una grande emozione tutte le volte che indosso la fascia prima di scendere in campo.

Giuseppe San Filippo

La vittoria più bella però in questi anni l’abbiamo conquistata fuori dal rettangolo di gioco, un’esperienza del genere cambia la vita all’atleta ma anche di riflesso alla famiglia, si impara a vivere la disabilità da un’altra prospettiva, dal lato bello, dalla parte di chi comprende che può essere meravigliosa la propria esistenza anche quando questa ti costringe a stare seduto su una carrozzina, ma non solo.

In questi anni di attività sportiva siamo riusciti a cambiare la mentalità dei nostri paesi, la gente ci ferma per strada per chiederci i prossimi incontri, i risultati, o magari semplicemente per complimentarsi per tutto quello che facciamo. Forse la più bella medaglia è proprio questa, sapere che la gente ti osserva non perché stai seduto su una sedia e sei sfigato, ma perché fai qualcosa che gli altri ti invidiano, ovvero “vincere” ogni giorno nella tua quotidianità. Oggi, e posso dirlo con orgoglio, dalle mie parti il termine “disabile” è sinonimo di “campione” e credo basti questa frase per far intendere quando a volte un incontro può cambiarti la vita…

Giuseppe Sanfilippo